Il microbiota intestinale protegge dalla neurodegenerazione da Mn
GIOVANNA REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 02 maggio 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Le forme non familiari delle più frequenti malattie neurodegenerative, nella
maggior parte dei casi, riconoscono un’eziopatogenesi multifattoriale, con
componenti ambientali varie. Fra gli agenti inquinanti atmosferici, i più
sospettati e studiati sono i metalli pesanti, considerati in generale una
temibile minaccia per la salute umana, in quanto associati ad accresciuto
rischio cardiovascolare generale e allo sviluppo di coronaropatie,
cardiomiopatie e malattie degenerative del sistema nervoso centrale. Alcuni studi
hanno indagato gli effetti dell’esposizione a manganese (Mn) e hanno accertato
che il metallo contenuto nelle emissioni inquinati è responsabile di un’azione neurotossica
diretta e di un ruolo causale in vari disturbi neurodegenerativi, anche se il
meccanismo molecolare eziopatogenetico non è stato finora definito.
Hui Wang e
colleghi hanno studiato il rapporto fra azione neurotossica del manganese
contenuto nelle emissioni inquinanti e microbiota intestinale, trovando interessanti
tracce del meccanismo patogeno e giungendo proporre una specifica strategia
terapeutica dei processi neurodegenerativi dovuti a questa causa.
(Wang H. et al., The
Gut Microbiota Confers Protection in the CNS Against Neurodegeneration Induced
by Manganism. Biomedicine &
Pharmacotherapy – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.biopha.2020.110150, 2020).
La provenienza degli autori è la
seguente: Engineering and Technology Research Center of Traditional Chinese Veterinary
Medicine of Gansu Province, Key Lab of New Animal Drug Project of Gansu
Province, Lanzhou Institute of Husbandry and Pharmaceutical Sciences of Chinese Academy
of Agricultural Sciences, Lanzhou (Cina).
Prima di esporre in sintesi i risultati
dello studio, si ricordano alcune nozioni relative al rapporto fra cervello e
batteri intestinali. In un aggiornamento di qualche anno fa si leggeva:
“Il
tratto digerente e il cervello sono dunque strettamente associati, non solo a
motivo dei noti effetti dell’alimentazione sulle funzioni del sistema nervoso
centrale, ma precisamente per ragioni che si possono far risalire alla flora
batterica del canale alimentare.
In
condizioni fisiologiche, il tratto digerente è separato dal compartimento
ematico da una parete selettiva e virtualmente impermeabile di cellule, che non
consente il passaggio di batteri e sostanze tossiche dal lume intestinale al
sangue. Malattie, condizioni fisiopatologiche e trattamenti terapeutici, quali
radioterapie o un eccessivo e talvolta improprio uso di antibiotici e
antidolorifici, come si vede dall’elenco sotto riportato, possono compromettere
l’integrità di questa barriera cellulare, determinando la condizione di un
intestino con “falle” (leaky gut) che
consentono la dispersione, la sfuggita nel torrente circolatorio, di batteri e
molecole provenienti dalla superficie interna dell’intestino.
CONDIZIONI O PATOLOGIE
PREDISPONENTI
O CAUSANTI “LEAKY GUT”
Abuso
di alcool
Malattie
autoimmuni
Infezioni
(ad esempio da virus HIV)
Malattie
infiammatorie
Malattia
infiammatoria intestinale
Ipersensibilità
al glutine
Gravi
allergie alimentari
Organismo
stremato
Stress
psicologico
CAUSE IATROGENE
Terapia
Radiante
Terapie
antibiotiche protratte
Terapie
antidolorifiche protratte
Un interessante
studio, pubblicato su Acta Psychiatrica
Scandinavica, è stato condotto allo scopo di verificare l’esistenza di un reale
rapporto fra “leaky gut” e disturbi
psichici, da un gruppo di cui fa parte Michael Maes, uno psichiatra che svolge
attività di ricerca in Australia e Tailandia. Forse il rilievo più significativo
riportato è che circa il 35% dei partecipanti affetti da depressione presentava
segni ematochimici del passaggio di batteri intestinali nel compartimento
ematico. La proporzione è tale da consentire di escludere la coincidenza
casuale, tuttavia non è facile concepire ipotesi sui processi patogenetici da
indagare per scoprire i meccanismi molecolari direttamente responsabili degli
effetti psichici. In generale, i batteri che dall’intestino giungono nel
sangue, possono attivare risposte autoimmuni e infiammatorie, e da tempo tali
reazioni sono state associate a disturbi depressivi, abbassamento del tono
dell’umore e sensazioni psico-fisiche di stanchezza, fino alla spossatezza. Nel
campo della ricerca psicopatologica e psicosomatica non sono pochi coloro che
considerano la depressione una “malattia infiammatoria”, ma rimane da stabilire
se realmente la patogenesi dei disturbi depressivi implichi in ogni caso
processi propri dell’infiammazione”[1]. Effetti sul cervello sono stati studiati e
rilevati per i Lactobacilli (ad es. Lactobacillus helveticus e Bifidobacterium longum), per i Batteri Probiotici
(B.
animalis subsp. lactis, Streptococcus thermophilus.
L. delbruekii subsp. Bulgaricus, L. lactis subsp.
lactis) e per Helicobacter pylori:
“Si
è stimato che due o tre generazioni fa l’80% degli Americani ospitava Helicobacter pylori, mentre ora solo il 6% dei
bambini risulta positivo al batterio. Si comprende che nel 2012 sia stata
avanzata l’ipotesi che una parte non irrilevante dell’enorme diffusione di casi
di obesità infantile in America e in Europa sia dovuta all’eradicazione di Helicobacter pylori mediante antibiotici.
May A. Beydoun
e colleghi del National Institute on Aging, basandosi su evidenze che
associavano ridotte prestazioni cognitive alla sieropositività all’Helicobacter pylori, hanno condotto uno studio per
verificare in due ampi campioni della popolazione statunitense, dai 20 ai 59
anni e dai 60 ai 90, la possibile influenza del batterio, anche in rapporto al
sesso e a caratteristiche antropologiche[2]. La stima di sieropositività si è
basata su due misure (IgG e IgG CagA) mentre le
prestazioni cognitive sono state valutate mediante batterie di test
neuropsicologici specifiche per l’età. Veramente rilevante la riduzione di prestazione
cognitiva nei sieropositivi del gruppo 60-90, rispetto ai coetanei
sieronegativi, nelle prestazioni di memoria verbale (ricordo di una storia e correzione
di elementi erronei). In tutti e tre i gruppi antropologici principali
(cosiddette razze) in cui è stato
ripartito il campione, in entrambe le categorie di età e in tutte le aree della
cognizione esplorate dalle prove impiegate, si sono registrati risultati
notevolmente peggiori nei sieropositivi all’Helicobacter pylori. Tali risultati sembrano fugare ogni dubbio sulla reale capacità
del batterio di incidere negativamente, tanto che gli autori del lavoro
concludono lapidariamente che la sieropositività si associa a diminuite
capacità cognitive degli adulti negli USA, ed auspicano ricerche longitudinali
per porre in relazione questi risultati specificamente con il declino
cognitivo, con la demenza e la malattia di Alzheimer.
Quest’ultima
questione è particolarmente significativa, perché alcune evidenze di
laboratorio indicano che le cellule di questo batterio che finiscono nel sangue
per sfuggita da un intestino non perfettamente continente, o leaky gut, sono in grado di attraversare
la barriera ematoencefalica e penetrare nello spazio parenchimale
dell’encefalo, dove possono aggregarsi con i peptidi β-amiloidi che
formano le placche tipiche della malattia di Alzheimer. In particolare, sembra
che l’aggregazione batterica inneschi o incentivi processi di accumulo di
materiale β-amiloide, verosimilmente partecipando ad uno dei processi
principali che portano alla neurodegenerazione alzheimeriana.
Se, come abbiamo
ricordato, in età infantile solo il 6% è portatore del batterio, nelle età
successive la percentuale sale notevolmente: i National Institutes of Health (NIH) hanno recentemente fornito la stima del 20%
per le persone al di sotto dei 40 anni e di circa il 50% per coloro che abbiano
superato i 60 anni. È ovvio che, pensando all’accresciuto rischio di obesità
infantile senza il batterio, si vorrebbe aumentare il numero dei portatori ma,
se si dimostrerà realmente un contributo di Helicobacter pylori alla patogenesi dell’Alzheimer in un numero significativo
di casi, si potrebbe voler ulteriormente abbassare la quota dei portatori a
scopo preventivo”[3].
Ritorniamo allo studio qui
recensito.
Il microbiota intestinale svolge un
ruolo di cruciale importanza nell’asse bidirezionale che realizza l’integrazione
fisiologica tra sistema nervoso centrale e tratto gastroenterico. L’analisi dei
cambiamenti indotti dal manganese nella segnalazione chimica, nel metabolismo e
nel microbiota intestinale del ratto ha fornito nuove conoscenze a Hui Wang e colleghi sul
meccanismo neurotossico del metallo pesante.
L’esposizione a Mn induceva l’aumento
del bioaccumulo del metallo stesso, ma soprattutto
accresceva la deposizione di β-amiloide nel cervello, accanto all’incremento
della RIP3 (receptor-interacting protein kinase) e della
produzione della caspasi-3, con la conseguenza dello sviluppo di necrosi e della
degenerazione dell’ippocampo. L’atomo di Mn in dosi tossiche intacca la
fisiologica ricchezza di flora batterica intestinale, impoverendola. In
particolare, sono colpite le Prevotellaceae, le
Fusobacteriaceae e le Lactobacillaceae.
Un altro importante dato emerso dall’osservazione sperimentale è che l’esposizione
al metallo pesante causava significative alterazioni del metabolismo della triptamina, dell’acido taurodeossicolico,
dell’acido β-idrossipiruvico e dell’acido urocanico. Il trapianto di microbioma fecale da ratti
normali a ratti esposti a Mn è risultato in grado di alleviare la neurotossicità del metallo pesante, rimodellando la
composizione del microbiota intestinale.
L’insieme dei dati emersi dalla
sperimentazione, per i cui interessanti dettagli si rimanda al testo del lavoro
originale, evidenzia l’importanza della disbiosi
intestinale promossa dal manganese nella patogenesi della neurotossicità
da Mn e suggerisce la correzione dell’alterazione della flora quale terapia e
prevenzione secondaria della degenerazione cerebrale.
L’autrice della
nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di studi di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni
BM&L-02 maggio 2020
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 18-01-14
Batteri intestinali agenti sul cervello.
[2] Beydoun M. A., et al. Helicobacter pylori Seropositivity and Cognitive
Performance Among US Adults: Evidence From a Large National Survey. Psychosomatic Medicine 75 (5): 486-496, 2013. Lo studio si è basato sulla National Health and Nutrition Examination Survey III, Phase 1;
le caratteristiche antropogeografiche di provenienza, che in parte coincidono
con quelle etniche, negli USA per consuetudine giuridico-politica (lessico
della Costituzione) sono impropriamente definite razze.
[3] Note e Notizie 18-01-14
Batteri intestinali agenti sul cervello.